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La forza della materia

20 febbraio 2025

Dalla realtà al cinema e viceversa. Mentre nelle sale italiane esce The Brutalist, ecco un invito a visitare 3 edifici che esemplificano l’architettura brutalista e l’uso innovativo del cemento a vista nel dopoguerra e oltre.

 

di Nora Santonastaso




L’architettura brutalista nasce nel secondo dopoguerra e utilizza il cemento armato a vista come caratterizzante volumi ben riconoscibili, che dialogano con la luce e il contesto. Immagine © Yaosheng Zzheng / Unsplash


Uscito nelle sale cinematografiche italiane lo scorso 6 febbraio, The Brutalist è uno di quei film che, se sei un architetto, non puoi non mettere in programma di vedere. Diretto da Brady Corbet, racconta una storia che sembra biografica ma non lo è: quella dell’architetto ungherese László Toth - interpretato da Adrien Brody -, sopravvissuto all’Olocausto e immigrato negli Stati Uniti nel dopoguerra. La sua carriera prende slancio grazie a un potente mecenate, ma presto si scontra con le difficoltà di mantenere la propria visione architettonica in un mondo dominato da compromessi e pressioni economiche.

 

La pellicola esplora il rapporto tra creatività, potere e resilienza attraverso l’estetica e la filosofia del brutalismo, corrente architettonica emersa nel secondo dopoguerra come risposta audace e innovativa alle esigenze di ricostruzione e modernizzazione.


Caratterizzata dall'uso predominante del cemento armato a vista, forme geometriche nette e poderose e un'estetica che privilegia la funzionalità sulla decorazione, questa corrente ha trovato espressioni significative anche in Italia. Nel nostro contesto il brutalismo ha assunto connotazioni uniche, integrandosi con il paesaggio locale e riflettendo le specificità culturali e sociali del paese.


Esploriamo virtualmente insieme tre architetture brutaliste italiane, di cui potete programmare la visita in una delle vostre prossime giornate da turisti in città o poco fuori porta.



La Casa Albero, a pochi chilometri da Roma, è visitabile in occasione di eventi culturali e continua ad affascinare nonostante lo stato di avanzato degrado in cui versa. Immagine © Nora Santonastaso


La prima è la Casa Albero o Casa Sperimentale progettata tra il 1968 e il 1975 dagli architetti Giuseppe Perugini, Uga De Plaisant e il loro figlio Raynaldo. Rappresenta un esempio emblematico di sperimentazione architettonica. Situata nella pineta di Fregene, a pochi chilometri da Roma, l'abitazione è stata concepita come una villa per il fine settimana, integrandosi armoniosamente con l'ambiente naturale circostante.


La struttura si distingue per l'uso innovativo del cemento armato, combinato con vetro e acciaio, creando un insieme di volumi geometrici sospesi su pilastri che evocano l'immagine di una casa sull'albero. Questo design modulare, definito per volumi autonomi, riflette l'influenza delle avanguardie del XX secolo e rappresenta un tentativo di ridefinire il rapporto tra spazio abitativo e natura.


Nonostante lo stato di abbandono in cui versa attualmente, la Casa Albero continua ad essere oggetto di interesse per studiosi e appassionati di architettura per la sua audacia progettuale e l'approccio innovativo alla costruzione.



Il Santuario domina Trieste dall’alto e stupisce per la sua architettura piramidale in cemento armato. Immagine © Nora Santonastaso

 

La seconda visita da programmare è a Trieste, al Tempio Nazionale a Maria Madre e Regina, comunemente noto come Santuario di Monte Grisa. Situato su un'altura che domina la città di Trieste e progettato dall'architetto Antonio Guacci, l’edificio è stato costruito tra il 1963 e il 1965, in seguito a un voto fatto dall'arcivescovo Antonio Santin durante la Seconda Guerra Mondiale.


L’architettura è caratterizzata da una forma piramidale composta da una serie di triangoli equilateri, simbolo della Trinità, realizzati in cemento armato a vista. Questa scelta progettuale conferisce al santuario un aspetto monumentale e austero, tipico dell'architettura brutalista.
All'interno l'uso di vetrate colorate crea un contrasto cromatico che arricchisce l'esperienza spaziale, mentre la struttura geometrica enfatizza la verticalità e la solennità dello spazio sacro.



Il Complesso Monte Amiata porta la firma di Carlo e Maurizio Aymonino e Aldo Rossi e ancora oggi rappresenta la concretizzazione di un moderno concetto di città. Immagine © Gunnar Klack

 

Spostiamoci infine a Milano e, in particolare, dirigiamoci verso il Quartiere Gallaratese. Qui troviamo il Complesso Monte Amiata, progettato tra il 1967 e il 1972 da Carlo Aymonino - con il fratello Maurizio - e Aldo Rossi. Il complesso residenziale rappresenta un'interpretazione radicale della città moderna, con una particolare attenzione agli spazi collettivi e alla stratificazione urbana.


L'insieme architettonico è caratterizzato da volumi geometrici in cemento armato a vista, articolati attorno a cortili interni, percorsi sopraelevati e piazze pubbliche che rievocano l'impianto delle città storiche. La volontà progettuale di Aymonino era quella di creare un microcosmo urbano, ispirandosi alla tipologia della città nella città. L’intervento di Aldo Rossi rafforza questa visione con un approccio più razionale, enfatizzando la serialità degli edifici e la loro funzione nel contesto urbano.


Ancora oggi abitato e visitabile, il Complesso Monte Amiata rappresenta un punto di riferimento per comprendere l’evoluzione del brutalismo italiano e il dibattito sullo spazio collettivo nell’architettura residenziale del dopoguerra.

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